La sfida di porre fine alle guerre

Il “duro” ufficiale di Washington, la retorica da macho su come rispondere alle crisi straniere, rende difficile per i leader evitare le guerre e forse ancora più difficile porre fine alle guerre, un dilemma affrontato dall’ex analista della CIA Paul R. Pillar .

Di Paul R. Pilastro

Gli americani non sono molto bravi a porre fine al loro coinvolgimento nelle guerre. No, questa non è una dichiarazione pacifista sulla necessità di smettere di combattere le guerre in generale. Si tratta invece di un’osservazione su come gli Stati Uniti, una volta coinvolti, nel bene e nel male, in una guerra, abbiano difficoltà a determinare quando e come finirla e tornare a casa.

Una delle ragioni principali di questa difficoltà è che gli americani in fondo non sono Clausewitziani. Tendono a non vedere la guerra come una continuazione della politica con altri mezzi, ma invece a pensare alla guerra e alla pace come due condizioni molto diverse con chiare linee di demarcazione tra loro.

Il presidente Barack Obama incontra i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale nella Situation Room della Casa Bianca, 7 agosto 2014. (Foto ufficiale della Casa Bianca di Pete Souza)

Il presidente Barack Obama incontra i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale nella Situation Room della Casa Bianca, 7 agosto 2014. (Foto ufficiale della Casa Bianca di Pete Souza)

Agli americani quindi vanno bene le guerre che hanno una fine chiara come la resa delle potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, che continua a essere per molti americani il prototipo di come una guerra dovrebbe essere iniziata, concepita e conclusa. Ma le guerre americane da allora non hanno offerto conclusioni così soddisfacenti.

Quella che si avvicinò di più a questo obiettivo fu l’operazione Desert Storm del 1991, che raggiunse rapidamente e con decisione l’obiettivo dichiarato di invertire l’assorbimento iracheno del Kuwait. Anche quella vittoria, tuttavia, lasciò un retrogusto insoddisfacente in bocca ad alcuni (soprattutto neoconservatori), perché Saddam Hussein rimase al potere a Baghdad.

È quindi difficile per i leader statunitensi, anche se sono capaci di pensare in termini disciplinati di Clausewitz, spiegare e giustificare al pubblico americano, e alla classe politica che fa appello a quel pubblico, la conclusione di un coinvolgimento militare all’estero senza una vittoria netta, in stile Seconda Guerra Mondiale. Questo è un problema, non importa quanto fondata e giustificata fosse la decisione originaria di entrare in guerra.

Altre dinamiche sono comunemente coinvolte in tali situazioni, inclusa quella solitamente chiamata mission creep, la tendenza in una spedizione militare all'estero per cui una cosa porta a un'altra e per le proprie forze militari ad assumere gradualmente incarichi oltre quello che era il motivo originale della missione. mandandoli all'estero. Qualsiasi nazione può essere risucchiata dalla missione, ma gli americani ne sono particolarmente vulnerabili.

Una delle ragioni è il desiderio di conclusioni nette e vittoriose per le avventure militari all'estero. Altre sono le tendenze americane a vedere qualsiasi problema all’estero come un problema che deve essere affrontato dalla superpotenza, e ad aspettarsi che se gli Stati Uniti mettono le loro menti e le loro risorse in questo compito, possano risolvere qualsiasi problema all’estero.

Alcuni spunti su questo argomento possono essere raccolti confrontando due grandi recenti spedizioni militari statunitensi: quella in Iraq dal 2003 al 2011 e quella in Afghanistan iniziata nel 2001 e che continua ancora oggi. Non c'è alcun paragone tra i due per quanto riguarda le ragioni originali per avviarli, e in questo senso è un peccato che i due siano finiti insieme nelle discussioni successive.

La prima era una guerra di aggressione con una logica artificiosa e inventata; l’altro era una risposta diretta e giustificata ad un attacco letale contro gli Stati Uniti. L’Iraq è stata davvero la guerra brutta e l’Afghanistan quella buona. Ma man mano che il tempo e i costi si trascinavano e l’Afghanistan diventava la guerra più lunga mai condotta dall’America, il paese perse gradualmente il sostegno sia degli americani che degli afghani.

Il fallimento in Afghanistan è stato non trovare e non prendere una rampa di uscita adeguata. La via d’uscita che avrebbe dovuto essere presa venne raggiunta già nei primi mesi dell’intervento statunitense, dopo che gli autori dell’attentato dell’9 settembre, motivo dell’intervento, furono cacciati dalle loro case e i loro ex alleati, gli afgani. I talebani erano stati estromessi dal potere.

Indipendentemente da ciò che sarebbe successo in Afghanistan dopo, non ci sarebbe stato un ritorno alla situazione pre-settembre 2001, sia perché i talebani non avrebbero avuto motivo di allearsi nuovamente con un gruppo di terroristi arabi transnazionali che avevano provocato tale di conseguenza, e perché le regole d'ingaggio degli Stati Uniti sono cambiate così tanto che nessun ritorno di questo tipo sarebbe stato consentito indipendentemente dal fatto che le truppe statunitensi fossero sul terreno o meno.

Non è stata trovata alcuna buona via d'uscita con la guerra in Iraq, e non ce ne sarebbe mai stata una davvero buona, dato in primo luogo quanto mal concepita fosse la guerra e quanta poca attenzione gli artefici della guerra avessero dedicato alla posta. -conseguenze dell'invasione.

L’amministrazione americana che ha perpetrato la guerra ha affrontato il problema in maniera politicamente fine, utilizzando un’ondata di forza per ridurre la violenza nella guerra civile al punto da poter dire di non aver lasciato l’Iraq in pezzi, e poi negoziando con il governo iracheno un programma per il ritiro degli Stati Uniti che dovrà essere attuato dalla prossima amministrazione.

Ciò ha posto le basi, ovviamente, per la promozione il mito che la guerra era stata “vinta” al momento del passaggio del potere negli Stati Uniti e di aver incolpato la successiva amministrazione, quando aveva debitamente attuato il programma di ritiro che le era stato dato, per tutte le successive indicazioni che la guerra chiaramente non era stata "vinto."

Inoltre ha posto le basi, ora che gli Stati Uniti hanno di nuovo truppe in Iraq, per parlare della necessità di una “presenza americana a lungo termine” per evitare di ripetere il presunto errore di tagliare e correre. La durata del "lungo termine" non viene specificata. In altre parole, non viene identificata alcuna rampa di uscita. In altre parole, si ripropone il problema familiare di non sapere come e quando concludere il coinvolgimento in una guerra straniera.

L’errore commesso in Afghanistan, di non prendere la rampa e trasformare quella che era stata una risposta giustificata ad un attacco alla patria degli Stati Uniti in un tentativo senza fine di costruzione della nazione in un paese a migliaia di chilometri di distanza, rischia di ripetersi in Iraq.

Il problema dell’Isis, il motivo dell’ultimo intervento in Iraq, andrà via, ma non in modo sufficientemente netto da soddisfare il desiderio americano di vittoria e di tracciare linee chiare per segnare la divisione tra guerra e pace. Non ci sarà una cerimonia di resa sul ponte di un rimorchiatore, per non parlare di una corazzata.

L'amministrazione Obama deve articolare nel modo più chiaro e specifico possibile come sarà l'uscita, una formulazione come "alla fine distruggere" l'ISIS non basta. L'opinione pubblica deve essere preparata a una partenza dall'Iraq che abbia senso in termini degli specifici interessi serviti dagli Stati Uniti, ma che sia molto meno soddisfacente che garantire la resa incondizionata di qualcuno o la distruzione completa e inequivocabile. Se la partenza non deve avvenire se non per impazienza ed esaurimento, l’unica altra alternativa è una presenza militare americana senza fine.

E una presenza infinita non è affatto una soluzione. Certamente non dal punto di vista di un uso saggio delle risorse americane. Né lo sarebbe dal punto di vista della soluzione dei problemi dell’Iraq, dato che qualsiasi soluzione di questo tipo dipende dall’adattamento politico delle differenze tra gli stessi iracheni, e dati i risentimenti che derivano dagli inevitabili effetti dannosi dell’uso della forza militare americana, un’altra lezione da guerra in Afghanistan.

Paul R. Pillar, nei suoi 28 anni presso la Central Intelligence Agency, è diventato uno dei migliori analisti dell'agenzia. Ora è visiting professor presso la Georgetown University per studi sulla sicurezza. (Questo articolo è apparso per la prima volta come un post sul blog sul sito Web di The National Interest. Ristampato con il permesso dell'autore.)

 

2 commenti per “La sfida di porre fine alle guerre"

  1. John
    Gennaio 8, 2015 a 09: 18

    Punti molto positivi in ​​questo articolo. La follia della popolazione sta nell’aspettarsi un piano per raggiungere obiettivi realistici, o una strategia di uscita dalle guerre concepita esclusivamente per giustificare le richieste di potere interno della destra. Le persone continuano a mettersi in fila per dimostrare la propria virilità e lealtà tribale, senza nemmeno fare domande sulle motivazioni offerte. Questo ritorno al primitivismo è causato dall’abdicazione della critica intelligente da parte dei mass media di proprietà delle concentrazioni economiche e dal loro controllo delle elezioni. Il popolo non ha più gli strumenti fondamentali della democrazia, che sono anche gli strumenti dell’educazione ai valori fondamentali che hanno portato alla democrazia. Stiamo assistendo ai primi segni di questo AIDS della democrazia, che sono il ritorno delle antiche forme di tirannia sulle democrazie descritte da Aristotele.

    • Pietro Loeb
      Gennaio 10, 2015 a 06: 50

      LE GUERRE USA NON FINISCONO

      La Seconda Guerra Mondiale non è “finita” nel 1945. Per la storia
      sul perché, leggi Joyce e Gabriel Kolko
      libro fondamentale I LIMITI DEL POTERE: LA POLITICA ESTERA DEL MONDO E DEGLI STATI UNITI, 1945-1954 (Harper & Row, 1972).

      Questo libro affronta e amplia la maggior parte degli argomenti
      i punti sollevati da Paul Pillar nel suo articolo. Sono alla 5a lettura di questo
      libro inestimabile.

      —-Peter Loeb, Boston, MA, USA

I commenti sono chiusi.